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Le regine di Scanno

 

Le regine di Scanno


È raro ormai incontrarle per il paese, sorprendersi ad ogni vicolo per l’abito e le usanze che incantarono i viaggiatori sin dal tempo del Grand Tour. Ma le “antiche donne” di Scanno restano il simbolo autentico, l’icona più riconosciuta di questo lembo di montagna dove l’identità e la memoria sono vive dimensioni non ancora trasmutate in bene da salvare. Non sono più di qualche decina, dicono cinquanta. Le scorgi con un po’ di fortuna quando la primavera riscalda la strada; le immagini lontane nella loro vecchiaia a ricordare il bosco, lo stazzo, la gioia della festa, protette nel bozzolo, ora più leggero, dell’antica vestitura. Le sole, le ultime. Fragili portatrici di una preziosa unicità. Epigone di una consuetudine antichissima che ha mosso studi e favole suggestive e in cui è racchiuso l’enigma di un luogo rimasto intatto nella sua più scoperta espressione. È meraviglioso il costume di Scanno, fin dal nome della sua parte più famosa: “ju cappellitte d’uore”, quella corona di seta filata d’oro e d’argento che conferiva alla sposa, insieme al panno sontuoso dell’abito, l’immagine di una regina. E splendido, ancora, per i grembiuli dai colori iridati, i merletti, i nastri lucenti tra i capelli, le mille forme dei gioielli di filigrana. E la foggia non meno solenne del vestire quotidiano, una ricchezza di lane tessute mirabilmente dalle stesse scannesi, che per quest’arte si resero famose e innalzarono sulle altre il loro modo di vestire. Ma non si pensi ad una pittoresca stravaganza,

Le donne in costume tradizionele

quella che, in una Scanno quasi inviolata dallo sguardo del “forestiero”, faceva scrivere nel 1907 ad Anne McDonnel: “ (…) non ho mai visto tante regine tutte insieme come in questo posto”. A Scanno il costume tradizionale non fu solo il riflesso di un’eccentrica fantasia femminile ma il segno di un sistema e di un tempo, quello eroico e prosperoso della pastorizia, in cui la donna rappresentò il fondamento della vita sociale. Montanara orgogliosa, forte compagna, era questa che, nell’assenza perenne dell’uomo transumante, manteneva la saldezza e l’economia del focolare. Lei che, narravano, badava alla casa e alla calza ma sapeva produrre e colorare stoffe; che raccoglieva la legna per il lungo inverno, che lavorava nei campi, guardava le greggi e, all’occorrenza, diventava muratore. Lei, soprattutto, che nutriva il cuore della sua gente custodendo le antiche tradizioni. Quando l’epoca buona declinò, facendo conoscere ai pastori l’angoscia della perdita e di un futuro sconosciuto, fu ancora questa donna, allenata alla rinuncia e all’autosufficienza, a farsi ancora di mariti e di figli trascinati dalla deriva di un mondo che tramontava e, più tardi, dall’emigrazione. E quel costume che, da remote fantasmagorie di colori, virò proprio allora nel nero e nel verde cupo che conosciamo, accolse anch’esso nuove funzioni, diventando non più solo il simbolo di un passato prestigioso ma anche il sigillo dell’identità del paese, quasi a rappresentare il riparo di una comunità attraversata

 

 

dai mille contrasti del cambiamento. Singolari, quasi irreali, le donne di Scanno hanno accompagnato il tempo come sentinelle tenaci. La loro vicenda, che lentamente si conclude, non è solo la storia di una meraviglia di stoffa ma un frammento di una cultura che ci appartiene.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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