a Chieti
Fondazione
della chiesa e del convento dei Cappuccini
La facciata
della chiesa
Benvenuti a Chieti città d'arte e di cultura, recitano i
cartelloni posti all'ingresso della nostra città, Tra i
tanti monumenti e siti di interesse artistico, storico,
religioso e culturale di cui la città dispone, ve ne sono
alcuni quasi sconosciuti anche agli stessi teatini, luoghi
che noi potremmo definire oggi di nicchia. C'è un luogo da
visitare, la chiesa dei Cappuccini detta anche chiesa di San
Giovanni Battista, in onore di Giambattista Castrucci, che
nell'anno della realizzazione, 1586, reggeva la Diocesi di
Chieti. La chiesa di San Giovanni Battista dei
Cappuccini, oggi cappella delle “case di riposo”, è
la più interessante della città. Essa, infatti, oltre a
importanti opere d’arte lignea, conserva numerose pale
d’altare di scuola veneta della fine del ‘500, costituendo
un fenomeno artistico notevole. Ma ancor più importante è il
fatto che abbia conservato fino ai nostri giorni una quasi
totale integrità e omogeneità d’arredo, sicché facilmente
appaiono estranei all’ambiente i quadri e le statue
depositati in essa, ma di diversa provenienza. Le sue
origini risalgono al 1579, precisamente il 20 aprile di
quell’anno, quando il Parlamento della città di Chieti
trattò la questione della istituzione di un convento di
Cappuccini “di beneficio grande alla città”, riconoscendo
che “la vita sana ed esemplare dei suddetti frati sarebbe
stata salutare per le anime dei cittadini”. Il 12 dicembre
1579 la città ricevette sotto la sua protezione i frati e li
ospitò a Coste Careti), la località su cui sorge ancora
Santa Maria Maddalena, perché vi costruissero chiesa e
convento. Ma considerati l’enormità della spesa necessaria e
il tempo richiesto per i lavori, nonostante fossero già
cominciati, si decise di destinare loro il convento di Santa
Chiara vecchio, abbandonato dalle Clarisse già dal 1452 e
ceduto in permuta del loro nuovo convento al monastero di
Santo Spirito. Questo, a sua volta, venne compensato dalla
Curia Arcivescovile con la chiesetta di Santa Maria
Maddalena e il 23 aprile 1583 il Consiglio della città
concesse ufficialmente il nuovo “luogo” per il convento dei
Francescani riformati. In seguito, il 3 aprile 1584, venne
venduto un terreno presso Coste Careti per ricavare la somma
necessaria alla fabbrica (8); per giunta il Comune elargì il
15 luglio dello stesso anno la cospicua somma di ben 150
ducati perché i frati ne disponessero a loro piacimento (9).
Finalmente, intorno al 1584 “cum magna pompa” si dà inizio
ai lavori e si impetra la protezione del santo patrono della
città le cui reliquie vengono solennemente portate sul luogo
dell'erigendo edificio sacro. La prima pietra fu posta
dall’arcivescovo Cesare Busdrago e la fabbrica fu portata a
compimento a maggio del 1586, come si legge in una
interessante cronaca manoscritta del tempo tramandataci da
uno zelante cappuccino.
Il Nicolino aggiunge nella sua “Historia della città di
Chieti” che in quello stesso anno venne restaurato anche il
refettorio del preesistente monastero. E poiché in
quell’anno reggeva la diocesi teatina Giambattista
Castrucci, nobile lucchese, fu imposto alla chiesa il titolo
di San Giovanni Battista. Infine, una lapide murata a
sinistra di chi entra, ma un tempo posta a man dritta
dell’altare maggiore, attesta che la consacrazione del
tempio avvenne il 16 marzo 1605 da parte dell’arcivescovo
Matteo Saminiato. Di quell’antica costruzione non restano
che il semplice e lineare portalino in pietra e il
refettorio di notevoli dimensioni, con un affresco ovale
ancora visibile, dei tanti raffiguranti santi francescani
scialbati di recente. Il modello della chiesa probabilmente
non si discostava da quello canonico delle chiese
cappuccine: un’aula con cappelle alquanto basse su un lato e
un portichetto sulla facciata; altari lignei eseguiti dagli
stessi frati e pavimentazione in cotto. E’ noto che le
costituzioni cappuccine indicavano norme precise relative
alla situazione e alla costruzione degli edifici dell’ordine
(15). Essi dovevano sorgere ad una certa distanza dagli
abitati (a non meno di un miglio e mezzo), e prescrivevano
l’uso di materiali poveri quali il legno, i vimini e i
mattoni crudi. La nostra sicuramente si uniformava a tali
regole, anche se oggi non possiamo giudicare il suo stato
originario a causa della ristrutturazione settecentesca; e
anche se la sua ubicazione resta tuttora periferica, essa è
talmente assediata da brutti edifici moderni che
maggiormente si rimpiange l’antica condizione descritta
liricamente dal Nicolino: “Questa chiesa è posta e situata
vicino le muraglie della città, con una vista mirabile di
mare, montagne, pianure, valli, colli e fiumi, e sono ivi
due torrioni grandi, donde si veggono anche tante città,
terre e castelli, che in questo Regno, e forse in Italia par
che non vi sia un simile convento de’ cappuccini ch’abbia
una simil vista”. Fondatori di questo convento furono
il frate Lorenzo Bellarmino, sepolto nella chiesa di Penne,
frate Ludovico Capograssi da Sulmona e frate Silvestro da
Cingoli, i quali fondarono in Abruzzo ben 25 “luoghi” prima
del 1600. Il primo cappuccino teatino fu frate Ludovico
Sanguineto, di antica nobiltà chietina, figlio di don
Giuseppe che nel 1566 era stato Regio Auditore in
Abruzzo e poi vicereggente al tempo di Filippo II d'Asburgo
|
Particolari della facciata dell'altare ligneo |
|
Il primo
priore fu lo stesso frate Silvestro, sotto il cui guardianato nel
1596 fu innalzato da frate Marco da Sulmona un pregevole altare
maggiore ligneo, molto ammirato dai contemporanei, a spese dei
coniugi Valerio e Silvia Valignani. Nel corso del secolo XVII la
chiesa fu arricchita di molte opere d’arte, come per esempio la pala
di San Felice da Cantalice eseguita immediatamente dopo il 1625,
anno della sua beatificazione. Purtroppo la documentazione relativa
al ‘600 è molto scarna e di sicuro sappiamo soltanto che in questo
secolo il convento fu eletto a sede ordinaria dei Padri provinciali
e che in esso venne istituita la Scuola Teologica per i Cappuccini
d’Abruzzo.
L'altare in
legno
Ritenuta ormai angusta e insufficiente, nel 1700 la chiesa
venne interamente trasformata e venne ricostruito
integralmente il suo arredo ligneo. Frate Giuseppe Antonio
da Roccaraso, il diligente trascrittore della cronaca antica
del convento, ci informa che il 3 agosto del 1700 venne
distrutta l’antica opera di frate Marco da Sulmona e l’8
agosto dello stesso anno Felice Palombieri da Teramo,
cappuccino laico fabbriciere della Provincia Abruzzese,
intraprendeva la costruzione di un nuovo altare maggiore
insieme con il tabernacolo e tutto quanto occorre ad
ornarlo; questa volta a spese dei frati. Idelfonso da
Scorrano, priore, custode e guardiano del convento, si
adoprò perché i lavori fossero celermente portati a termine
e perciò provvide con sollecitudine a reperire i materiali
occorrenti per gli altari e le opere murarie facendo ricorso
ai fondi del convento e alle elemosine dei fedeli. I lavori
occuparono i religiosi per quattro anni; alla fine,
innalzati a debito rapporto gli archi delle cappelle,
risultò totalmente rifatta la volta della navata centrale;
inoltre venne realizzato un pavimento di pietra bianca e
grigia. I
frati pagarono anche il restauro della pala maggiore,
sebbene essa restasse di proprietà dei posteri degli antichi
committenti, e ai suoi lati vennero dipinti da Pompilio de
Pizzis da Torricella due pannelli con la decollazione di San
Giovanni e Salomé con la testa del Battista.
Entro il 1704 tutto il complesso era stato rifatto “ex
novo”; gli altari della sagrestia, invece, è da presumere
che siano stati eseguiti successivamente, risultando
alquanto diversi per disegno e intaglio e potrebbero essere
di mano di frate Ambrogio Sodani da Milano, altro valente
ebanista cappuccino che ha operato a Chieti e Teramo fino al
1712, anno della sua morte. Serafino Torelli, cappuccino
teatino, venne posta sul terzo altare la tela del Bugnara,
in sostituzione dell’antica raffigurante San Francesco alla
Verna, primo quadro giunto da Venezia nel 1593. Nel 1744,
infine, essendo molto elevato il numero dei religiosi e
degli studenti presenti nel convento, fu innalzata l’ala che
dalla loggia guarda a settentrione. In seguito al decreto
napoleonico sulla soppressione degli ordini religiosi, si
ebbe la cacciata dei frati dalla città con la conseguente
fine di questo glorioso convento e la dispersione della sua
ricca e scelta biblioteca. Due piatte paraste dividono la
facciata in tre scomparti di cui quello centrale a capanna e
i laterali spioventi; corona il tutto un cornicione poco
aggettante di semplici linee. Degno di nota è soltanto il
portalino in pietra, sicuro resto della costruzione più
antica; sull’architrave bombato si legge “IOANNES EST NOMEN
EIUS” riportato anche dal
Nicolino; il classico disegno con i sobri intarsi delle
mensole dell’architrave e l’assoluta affinità con il portale
della chiesa SS. Trinità, fondata anch’essa nel 1586 e
completata nella facciata nel 1602, comprovano l’anno di
nascita di questo monumento. Al rifacimento settecentesco
dobbiamo l’aggiunta delle finestre con le cornici in stucco
e i leggeri timpani arieggianti quello del portale. Esso è a
una sola navata di ragguardevoli dimensioni con volta a
botte lunettata; una delicata decorazione in stucco orna le
mensole di raccolta della crociera. Sul lato sinistro si
aprono quattro cappelle tra loro comunicanti con volte a
botte, divise da robusti pilastri e con pavimenti in cotto.
L’abside è rettangolare, completamente occupata dall’altare
maggiore per un rimpicciolimento operato
dall’amministrazione delle “case di riposo” in anni recenti.
Un bel pavimento in pietra bianca e grigia della Majella, a
disegni geometrici, copre tutta la navata imbiancata
poveramente a calce. A destra della porta d’ingresso è
murata la lapide funeraria del nobile Saverio Rocca; a
sinistra la targa bombata di pietra con cornice a ovoli che
ricorda la consacrazione della chiesa:
ANNO
DOMINI 1605 DIE 16
MARTII, TEMPLUM HOC CONSECRATUM
FUIT AB ADMODUM ILL.mo ET REV.mo
DOMINO MATTHEO SAMINIATO
ARCH. ET COMITE TEATINO.
La prima cappella
è un altare ligneo del 1700 eseguito da frati cappuccini
laici detti “Marangoni”, cioè maestri carpentieri.
Realizzato in noce, ha un prospetto con specchiatura in
radica dello stesso legno e filettatura in bosso. Due
colonne lisce con placcatura lignea, che cela la muratura,
sorreggono il timpano curvo spezzato con al centro una
cimasa. Ai capitelli corrispondono in parete
pseduo-proiezioni, caratteristica delle illusioni
prospettiche dello stile barocco. La pala d’altare
rappresenta la Crocifissione con la Madonna e i Santi
Francesco, Rocco, Giovanni Evangelista e Maria Maddalena. In
basso, a destra, lo stemma partito Valignani-Anguillara
allude al matrimonio tra Girolamo Valignani e Lucrezia
Anguillara (misure: cm. 260x170). Il quadro è opera di un
pittore eclettico riferibile agli ultimi anni del 1500. La
cupa drammaticità dello sfondo con figure opalescenti di
guerrieri in lontananza e il forte gioco chiaroscurale
ricordano la Crocifissione della chiesa di San Fantin in
Venezia e quella del museo vetrario di Murano, già in Santa
Maria Formosa, eseguita per la famiglia Querini nel 1590,
entrambe del pittore Leonardo Corona da Murano. Sulle
pareti, quadri celebrativi dell’ordine cappuccino.
La seconda
cappella
è un altare ligneo simile al precedente, opera degli stessi
frati, con leggere variazioni scultoree sul timpano. La pala
raffigura la Deposizione con i Santi Tommaso, Giustino,
Bonaventura e Francesco (misure: cm. 260x168).
Tradizionalmente la figura di santo in vesti prelatizie è
stata interpretata come immagine di Pio V; in realtà ciò non
è possibile in quanto questo pontefice fu beatificato da
Clemente X nel 1672 e canonizzato da Clemente XI soltanto
nel 1710. La tecnica pittorica, il rigido panneggio dei
personaggi, trattato quasi fosse spesso cuoio, fanno
attribuire questa tela alla stessa mano della precedente.
Particolare interesse riveste, poi, l'immagine di San
Giustino
posta al centro del quadro, l’unica che si conosca del santo
patrono dipinta nel 1500. Sulla parete di destra si ammira
un Martirio di San Bartolomeo, forse proveniente dalla
chiesa dell’Annunziata dei Crociferi. E’ una buona replica
del famoso originale perduto di Giuseppe Ribera, di cui
esalta i noti accenti realistici. Sulla parete di sinistra e
sul pavimento due lapidi marmoree di una certa curiosità
ricordano una cugina di Papa Pio IX, nata contessa Mosconi
di Iesi e sposata al conte Leognani-Fieramosca di
Civitaquana.
Sul pilastro tra
la seconda e terza cappella
è sospesa una piccola pala centinata raffigurante Cristo
deposto tra le braccia dell’Eterno Padre e due angeli; in
alto putti alati con simboli della Passione. Si tratta di
una piccola tela proveniente da altra ubicazione, sempre di
questa chiesa, come si comprende dallo stemma dell’ordine
francescano dipinto in basso a destra. L’alta qualità
pittorica, il caldo cromatismo e il tema trattato la rendono
molto pregevole e ne rivelano la sicura ascendenza
veronesiana (misure: cm. 154x99).
La terza cappella
è un altare ligneo del 1700 quasi identico agli altri due,
opera sempre dei frati “Marangoni”. La pala d’altare
rappresenta Cristo risorto e la Vergine con San Francesco e
San Felice da Cantalice. In basso a sinistra si legge:
PINGEBAT
BUGNARA MANUS CONSULTOR IN URBE
HIC PATRUM PRAESUL CUM SERAPHINUS ERAT.
1728
La tela si fa ammirare per la morbidezza del colore e
l’eleganza delle figure, pervasa da un’aura vicina alla
restaurazione classicistica dell’Arcadia, dominante a Roma
nel primo ventennio del 1700, capeggiata da Sebastiano
Conca. Non se ne conosce la committenza, ma il Serafino di
cui si parla è padre Serafino Torelli da Chieti. Sulla
parete di sinistra si ammira la grande tela delle stesse
dimensioni di quelle dell’altare (cm. 275x170), raffigurante
San Francesco alla Verna; su un piccolo cartiglio si legge:
“... S faciebat anno 1593”. Il quadro appartiene ad un
autore attento all’osservazione naturalistica e calligrafico
nel disegno degli animali resi con puntiglio miniaturistico.
Anche questa tela è di scuola veneta, vicinissima alle altre
presenti nella chiesa. Sulla parete di destra è sospesa una
tela con San Camillo de Lellis (misure: cm. 200x130),
proveniente dalla chiesa dei Crociferi in cui si trova tutta
una serie di quadri narranti momenti salienti della vita del
santo degli infermi, opere firmate e datate del pittore
napoletano Ludovico de Majo. Nella stessa cappella, in
basso, è murato un monumento funebre con commovente
iscrizione. Innalzata nel 1844 per il duchino Michele
Bassi-Valignani d’Alanno, quest’opera, di squisita fattura,
ripropone l’eleganza classica e la levigatezza plastica del
Canova.
Nella quarta cappella
c'è un altare ligneo del 1700 eseguito insieme con gli altri
della chiesa dalle stesse maestranze cappuccine sotto la
guida di frate Felice da Teramo. Sull’altare San Felice
orante (misure cm. 102x101). Quasi certamente l’autore è
frate Semplice da Verona, fecondo pittore cappuccino attivo
nella seconda metà del secolo XVII. Di mano diversa, invece,
i quadri che incorniciano la tela, raffiguranti i miracoli
del primo santo dell’ordine. La tela è di buona qualità
pittorica e non manca di analisi psicologica, pervasa da
cupo verismo sottolineato dal teschio in prospettiva. In
questa cappella è depositata anche una Annunciazione datata
1624 con lo stemma della famiglia Celaja (misure: cm.
170x140).
La sagrestia è una stanza di piccole dimensioni dalla volta
lunettata, secondo gli schemi dettati dall’architettura
tardo-rinascimentale, si trovano due tele settecentesche
dalle forti tinte, cupe e drammatiche. Di grande interesse
gli armadi lignei dal disegno accurato e dal sicuro
intaglio. Sul cassone, ai lati di una grata in ferro battuto
e dorato, che cela un bel reliquiario, due ovali: un
Salvator Mundi ed una Vergine (misure: cm. 34x28).
Delicatissime immagini adolescenziali dalla fresca
morbidezza settecentesca che richiama la mano del De Mura.
Al centro una piccola immagine di San Michele Arcangelo,
consueta riproduzione del famoso quadro che Guido Reni
dipinse per la chiesa dei Cappuccini di Roma. Sull’armadio
più alto, interessanti teche reliquiarie di fattura più
ordinaria.
L'Altare maggiore, a partire dall’8 agosto del 1700 frate
Felice da Teramo dava inizio a questa mirabile opera,
lasciandone memoria scritta in una scheda incollata sulla
seconda tavola del dorso del ciborio. Gli stessi
contemporanei manifestarono stupore e meraviglia di fronte a
tanta maestria, e il modello di questo altare fu ripetuto in
innumerevoli chiese cappuccine della regione. Realizzato
tutto in legno di noce, bosso, particolari in ebano e altri
legni preziosi, costituisce il capolavoro dei frati
“Marangoni”, per la grandiosità delle proporzioni e la
finezza di esecuzione, in cui risaltano ornamenti scultorei,
colonne, intarsi, notevoli volumi e minuzie curiose,
tasselli lignei di scarso pregio intrinseco e placchette di
raro avorio. Su un prospetto enorme giganteggiano due
colonne scanalate con capitelli corinzi su cui poggia una
ricca trabeazione che fa da supporto ai curvi dossali del
timpano spezzato. L’alta cimasa, stretta da due eleganti
volute, racchiude l’immagine di Dio benedicente. Alla base
delle colonne, due piccoli ornatissimi tempietti
ripropongono in miniatura il disegno dell’insieme, mentre le
porte laterali che immettono nel coro sono sovrastate da due
grate lignee dal virtuosistico intreccio. Il ciborio, poi, è
un vero gioiello in forma di tempio a più piani, con
cupolino a cipolla su cui svetta il Salvatore. Ai lati due
agili torricini con cupole sorreggenti angioletti. Il tutto
in fasto di colonnine tortili, traforate e piene, intarsi di
legni vari e avori, nicchie con statuine in bosso e
leggiadri intagli. In tanta sapienza architettonica spicca
inoltre un meccanismo celato in portelli dietro l’altare,
con il quale si muovono diversi pannelli che vanno a
nascondersi in appositi incavi per lasciare all’ammirazione
decine di ampolline, flaconi, teche di vetro, in cui sono
conservati innumerevoli reliquie e oggetti della più rara
devozione.
Certamente è questa una straordinaria macchina scenica in
cui l’arte gareggia con la tradizione artigianale e che pone
frate Felice da Teramo al di sopra di tutti gli altri
“Marangoni”, degno emulo dei sommi intagliatori abruzzesi
del XVIII secolo, quali i Mosca, i Bencivenga, i Salvini.
La Pala d’altare è una tela, di vaste proporzioni (misure:
cm. 400x275), è anche essa di scuola veneta e rimonta alla
fine del ‘500. Vi sono raffigurati la Vergine con il Bambino
in grembo incoronati da angeli; in basso vi sono i Santi
Giovanni Battista, Francesco, Antonio da Padova, Chiara,
Maria Maddalena e Caterina d’Alessandria. Alla base, dietro
il ciborio, lo stemma inquartato dei Valignani con i nomi
dei committenti:
“VALERIUS ET SILVIA VALIGNANI CONIUGES”
Tutti i santi ritratti hanno una precisa giustificazione:
Giovanni Battista è il titolare della chiesa, Francesco e
Antonio sono i maggiori santi dell’ordine, mentre Santa
Chiara era la titolare del vecchio convento; Santa Maria
Maddalena era titolare della chiesetta che per prima aveva
ospitato i cappuccini in località Coste Careti e a Santa
Caterina era dedicata una cappella all’imbocco dell’attuale
via Sette Dolori, dove nel ‘700 fu costruito il convitto
dell’Addolorata ancora oggi esistente. Non dimentichiamo,
inoltre, che Caterina era il nome della madre di Valerio
Valignani il committente della pala. In tutta la
composizione è viva la lezione del Veronese, nel colorito un
po’ freddo, perlaceo, nella sontuosità dei gioielli e
dell’abbigliamento, nella opulenza matronale delle sante,
nell’ardito scorcio del ruotante San Giovanni e nell’arguto
visetto che si affaccia a sinistra, autentico ritratto; così
pure nell’idealizzato paesaggio che divide i due gruppi di
figure. L’anno di esecuzione non si allontana dal 1596,
quando fu innalzato il primo altare, come ci tramanda la
cronaca cappuccina. L’autore è senz’altro il pittore delle
prime due cappelle, come chiaramente si rileva da un’attenta
analisi stilistica. I pannelli laterali, invece, sono stati
dipinti nel 1700 da Pompilio de’ Pizzis da Torricella, a
spese dei frati; lavoro piuttosto scadente, soprattutto se
posto a confronto con la pala centrale.
Meritevoli di attenzione sono anche le altre opere custodite
in questa chiesa e che concorrono a farne un autentico
museo. Esse sono il grande Crocifisso cinquecentesco della
controfacciata, notevole per armonie di forme e sincera
drammaticità; una Immacolata lignea, ingenua, ma nel
complesso gradevole per l’eccellente doratura della veste; e
infine una Santa Caterina d’Alessandria in legno policromo
della fine del 1700, di mano educata e consapevole dei
canoni neoclassici. La letteratura relativa alle tele venete
di questa chiesa ha sempre fatto riferimento ad autori
famosi di quella regione, ricordando il Padovanino, Moretto
da Brescia, uno dei tanti allievi del Tintoretto, fino ad
arrivare a Palma il giovane. E’ indubbio, comunque, che esse
rinviano ad una personalità di un certo valore, sensibile
tanto alla lezione del Tintoretto, quanto a quella del
Veronese, restando affine alla produzione del Palma, ma nel
contempo non ignaro delle novità toscane che andavano
penetrando in Venezia alla metà del ‘500. Caratteristiche
comuni peraltro ha tutti quegli artisti che il Boschini
accoglie nel gruppo delle “Sette Maniere”: Palma, Peranda,
Vicentino, Aliense, Malombra, Contarini, Corona. Escludendo
i primi sei perché non proprio collimanti con le opere
presenti in Chieti, resta l’ultimo, Leonardo Corona da
Murano, di cui il Manzato a ben delineato il percorso
artistico, individuandone due momenti ben precisi, uno
veronesiano e un altro tintorettesco. Le tele dei
cappuccini, nella loro quasi totalità presentano un forte
veronesismo nel colore e nelle figure curate con minuta
attenzione rispetto al modello offerto dal Caliari, ricche
di azzurri e rosa, con abbigliamenti sontuosi che
privilegiano tessuti di raso e laminati, oltre alla dolcezza
dei volti femminili: tutti elementi questi che trovano
fedele riscontro in molti dipinti veronesiani realizzati dal
Corona tra il 1585 e il 1590 circa. Per esempio la pala
maggiore ha forti addentellati con la “Madonna della
Cintura” in Santo Stefano di Venezia dipinta nel 1590 per la
confraternita dei Cinturati di quella città; oltre a
richiamare le scultoree figure create dal Corona in San
Giovanni Elemosinario e San Nicolò dei Mendicoli, sempre in
Venezia. Un discorso a parte va fatto per la Crocifissione,
molto ammirata dagli storici locali e ricordata anche in
fonti antiche. Essa è accostabile, invece, ai dipinti
dell’ultimo periodo del Corona, quello propriamente
tintorettesco, quando maggiore fu l’adesione del pittore ai
programmi controriformisti della chiesa veneta, e perciò
eseguita con l’occhio rivolto alla Crocifissione Querini di
Santa Maria Formosa, oggi al museo vetraio di Murano, e ai
teleri di San Fantin e dell’Ateneo Veneto, interrotti per la
improvvisa morte del pittore nel 1605, lo stesso anno della
consacrazione di questa chiesa. Ricordiamo, inoltre, che
questa pala di Chieti fu fatta eseguire da Girolamo
Valignani dopo che era stato insignito della croce di San
Giacomo, da Filippo II in persona, morto come noto nel 1598.
L’attuale facciata è il risultato degli interventi operati
nel 1941. In essa notabile appare solo il portalino in
pietra, sicuro resto della costruzione più antica. L’interno
è composto da una sola navata con volta a botte lunettata e
quattro cappelle laterali tra loro comunicanti poste sul
lato sinistro. L’abside è di forma rettangolare ed è
totalmente occupata dall’altare maggiore. L’Altare Maggiore
realizzato in legno di noce con particolari in ebano ed
altri legni preziosi, costituisce il capolavoro dei frati
“Marangoni”. L’altare è caratterizzato da un’indiscutibile
finezza esecutiva nonostante le grandi dimensioni ed in esso
risaltano ornamenti scultorei, colonne ed intarsi. La cimasa
racchiude l’immagine di Dio benedicente. Alla base delle
colonne due piccoli tempietti ornati ripropongono in
miniatura il disegno dell’insieme, mentre le porte laterali
che immettono nel coro sono sovrastate da due grate lignee
caratterizzate da un raffinato intreccio. Inoltre dietro
l’altare è nascosto un meccanismo che fa muovere una serie
di pannelli che vanno a nascondersi in appositi incavi e
che, a seconda dei vari momenti liturgici, mostrano diverse
immagini o reliquie. Il ciborio, di fine fattura, è a forma
di tempio a più piani, con una piccola cupola su cui svetta
Dio Padre. La pala d’altare, di vaste proporzioni è di
scuola veneta ed è databile alla fine del cinquecento. Vi é
raffigurata un’Incoronazione della Vergine in un trionfo di
angeli, la Madonna è ritratta con il Gesù Bambino in grembo
ed ha una espressione di grande dolcezza. In basso vi sono i
Santi Giovanni Battista, Francesco, Antonio da Padova,
Chiara, Maria Maddalena e Caterina d’Alessandria. Alla base,
dietro il ciborio, vi è lo stemma della famiglia Valignani
con i nomi dei committenti: VALERIO ET SILVIA VALIGNANI
CONIUGES. I pannelli laterali dell’altare sono stati
eseguiti da Pompilio de’ Pizzis da Torricella. L’altare
ligneo della prima cappella, partendo dall’ingresso della
Chiesa, è stato eseguito dai Frati “Marangoni” nel 1700. E’
realizzato in legno di noce ed è formato da due colonne
lisce che sorreggono il timpano curvo spezzato, con al
centro una cimasa. La pala d’altare rappresenta la
Crocifissione con la Madonna e i Santi Francesco, Rocco,
Giovanni Evangelista e Maria Maddalena. Nella seconda
cappella l’altare ligneo è simile al precedente ed è opera
degli stessi frati. La pala rappresenta una Deposizione con
i Santi Tommaso, Giustino, Bonaventura da Bagnoregio e
Francesco. L’altare ligneo presente nella terza cappella
risulta quasi identico ai precedenti. La pala d’altare
rappresenta Cristo risorto e la Vergine con San Francesco e
San Felice da Cantalice. In questa cappella si trova anche
il monumento funebre del duchino Michele Bassi-Valignani
d’Alanno. L’opera fu innalzata nel 1844 ed appare come un
mirabile esempio dell’arte neoclassica di matrice canoviana,
cosa rarissima per l’Abruzzo. Il monumento funebre oltre a
portare inscritta un commovente epitaffio, raffigura sulla
sinistra, un putto che si appoggia alla fiaccola della vita
rappresentata però capovolta e spenta, al centro vi è una
stele inscritta con sopra l’urna funeraria cinta da una
corona di fiori; alla destra è rappresentato un giglio
reciso dalla falce della morte.. La quarta Cappella ci
presenta un’altare ligneo simile agli altri della Chiesa. La
pala d’altare rappresenta San Felice Cantalice orante ed è
incorniciata da una serie di riquadri che raffigurano i
miracoli del primo Santo dell’ordine.
@nonnoenio
|
|
|