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CHIETI - Chiesa di San Giovanni Battista

a Chieti

 

Fondazione della chiesa e del convento dei Cappuccini

 

La facciata della chiesa

 

Benvenuti a Chieti città d'arte e di cultura, recitano i cartelloni posti all'ingresso della nostra città, Tra i tanti monumenti e siti di interesse artistico, storico, religioso e culturale di cui la città dispone, ve ne sono alcuni quasi sconosciuti anche agli stessi teatini, luoghi che noi potremmo definire oggi di nicchia. C'è un luogo da visitare, la chiesa dei Cappuccini detta anche chiesa di San Giovanni Battista, in onore di Giambattista Castrucci, che nell'anno della realizzazione, 1586, reggeva la Diocesi di Chieti. La chiesa di San Giovanni Battista dei Cappuccini, oggi cappella delle “case di riposo”, è la più interessante della città. Essa, infatti, oltre a importanti opere d’arte lignea, conserva numerose pale d’altare di scuola veneta della fine del ‘500, costituendo un fenomeno artistico notevole. Ma ancor più importante è il fatto che abbia conservato fino ai nostri giorni una quasi totale integrità e omogeneità d’arredo, sicché facilmente appaiono estranei all’ambiente i quadri e le statue depositati in essa, ma di diversa provenienza. Le sue origini risalgono al 1579, precisamente il 20 aprile di quell’anno, quando il Parlamento della città di Chieti trattò la questione della istituzione di un convento di Cappuccini “di beneficio grande alla città”, riconoscendo che “la vita sana ed esemplare dei suddetti frati sarebbe stata salutare per le anime dei cittadini”. Il 12 dicembre 1579 la città ricevette sotto la sua protezione i frati e li ospitò a Coste Careti), la località su cui sorge ancora Santa Maria Maddalena, perché vi costruissero chiesa e convento. Ma considerati l’enormità della spesa necessaria e il tempo richiesto per i lavori, nonostante fossero già cominciati, si decise di destinare loro il convento di Santa Chiara vecchio, abbandonato dalle Clarisse già dal 1452 e ceduto in permuta del loro nuovo convento al monastero di Santo Spirito. Questo, a sua volta, venne compensato dalla Curia Arcivescovile con la chiesetta di Santa Maria Maddalena e il 23 aprile 1583 il Consiglio della città concesse ufficialmente il nuovo “luogo” per il convento dei Francescani riformati. In seguito, il 3 aprile 1584, venne venduto un terreno presso Coste Careti per ricavare la somma necessaria alla fabbrica (8); per giunta il Comune elargì il 15 luglio dello stesso anno la cospicua somma di ben 150 ducati perché i frati ne disponessero a loro piacimento (9). Finalmente, intorno al 1584 “cum magna pompa” si dà inizio ai lavori e si impetra la protezione del santo patrono della città le cui reliquie vengono solennemente portate sul luogo dell'erigendo edificio sacro. La prima pietra fu posta dall’arcivescovo Cesare Busdrago e la fabbrica fu portata a compimento a maggio del 1586, come si legge in una interessante cronaca manoscritta del tempo tramandataci da uno zelante cappuccino.
Il Nicolino aggiunge nella sua “Historia della città di Chieti” che in quello stesso anno venne restaurato anche il refettorio del preesistente monastero. E poiché in quell’anno reggeva la diocesi teatina Giambattista Castrucci, nobile lucchese, fu imposto alla chiesa il titolo di San Giovanni Battista. Infine, una lapide murata a sinistra di chi entra, ma un tempo posta a man dritta dell’altare maggiore, attesta che la consacrazione del tempio avvenne il 16 marzo 1605 da parte dell’arcivescovo Matteo Saminiato. Di quell’antica costruzione non restano che il semplice e lineare portalino in pietra e il refettorio di notevoli dimensioni, con un affresco ovale ancora visibile, dei tanti raffiguranti santi francescani scialbati di recente. Il modello della chiesa probabilmente non si discostava da quello canonico delle chiese cappuccine: un’aula con cappelle alquanto basse su un lato e un portichetto sulla facciata; altari lignei eseguiti dagli stessi frati e pavimentazione in cotto. E’ noto che le costituzioni cappuccine indicavano norme precise relative alla situazione e alla costruzione degli edifici dell’ordine (15). Essi dovevano sorgere ad una certa distanza dagli abitati (a non meno di un miglio e mezzo), e prescrivevano l’uso di materiali poveri quali il legno, i vimini e i mattoni crudi. La nostra sicuramente si uniformava a tali regole, anche se oggi non possiamo giudicare il suo stato originario a causa della ristrutturazione settecentesca; e anche se la sua ubicazione resta tuttora periferica, essa è talmente assediata da brutti edifici moderni che maggiormente si rimpiange l’antica condizione descritta liricamente dal Nicolino: “Questa chiesa è posta e situata vicino le muraglie della città, con una vista mirabile di mare, montagne, pianure, valli, colli e fiumi, e sono ivi due torrioni grandi, donde si veggono anche tante città, terre e castelli, che in questo Regno, e forse in Italia par che non vi sia un simile convento de’ cappuccini ch’abbia una simil vista”.  Fondatori di questo convento furono il frate Lorenzo Bellarmino, sepolto nella chiesa di Penne, frate Ludovico Capograssi da Sulmona e frate Silvestro da Cingoli, i quali fondarono in Abruzzo ben 25 “luoghi” prima del 1600. Il primo cappuccino teatino fu frate Ludovico Sanguineto, di antica nobiltà chietina, figlio di don Giuseppe che nel 1566  era stato Regio Auditore in Abruzzo e poi vicereggente al tempo di Filippo II d'Asburgo

Particolari della facciata dell'altare ligneo

Il primo priore fu lo stesso frate Silvestro, sotto il cui guardianato nel 1596 fu innalzato da frate Marco da Sulmona un pregevole altare maggiore ligneo, molto ammirato dai contemporanei, a spese dei coniugi Valerio e Silvia Valignani. Nel corso del secolo XVII la chiesa fu arricchita di molte opere d’arte, come per esempio la pala di San Felice da Cantalice eseguita immediatamente dopo il 1625, anno della sua beatificazione. Purtroppo la documentazione relativa al ‘600 è molto scarna e di sicuro sappiamo soltanto che in questo secolo il convento fu eletto a sede ordinaria dei Padri provinciali e che in esso venne istituita la Scuola Teologica per i Cappuccini d’Abruzzo. 

L'altare in legno

Ritenuta ormai angusta e insufficiente, nel 1700 la chiesa venne interamente trasformata e venne ricostruito integralmente il suo arredo ligneo. Frate Giuseppe Antonio da Roccaraso, il diligente trascrittore della cronaca antica del convento, ci informa che il 3 agosto del 1700 venne distrutta l’antica opera di frate Marco da Sulmona e l’8 agosto dello stesso anno Felice Palombieri da Teramo, cappuccino laico fabbriciere della Provincia Abruzzese, intraprendeva la costruzione di un nuovo altare maggiore insieme con il tabernacolo e tutto quanto occorre ad ornarlo; questa volta a spese dei frati. Idelfonso da Scorrano, priore, custode e guardiano del convento, si adoprò perché i lavori fossero celermente portati a termine e perciò provvide con sollecitudine a reperire i materiali occorrenti per gli altari e le opere murarie facendo ricorso ai fondi del convento e alle elemosine dei fedeli. I lavori occuparono i religiosi per quattro anni; alla fine, innalzati a debito rapporto gli archi delle cappelle, risultò totalmente rifatta la volta della navata centrale; inoltre venne realizzato un pavimento di pietra bianca e grigia. I

frati pagarono anche il restauro della pala maggiore, sebbene essa restasse di proprietà dei posteri degli antichi committenti, e ai suoi lati vennero dipinti da Pompilio de Pizzis da Torricella due pannelli con la decollazione di San Giovanni e Salomé con la testa del Battista.
Entro il 1704 tutto il complesso era stato rifatto “ex novo”; gli altari della sagrestia, invece, è da presumere che siano stati eseguiti successivamente, risultando alquanto diversi per disegno e intaglio e potrebbero essere di mano di frate Ambrogio Sodani da Milano, altro valente ebanista cappuccino che ha operato a Chieti e Teramo fino al 1712, anno della sua morte. Serafino Torelli, cappuccino teatino, venne posta sul terzo altare la tela del Bugnara, in sostituzione dell’antica raffigurante San Francesco alla Verna, primo quadro giunto da Venezia nel 1593. Nel 1744, infine, essendo molto elevato il numero dei religiosi e degli studenti presenti nel convento, fu innalzata l’ala che dalla loggia guarda a settentrione. In seguito al decreto napoleonico sulla soppressione degli ordini religiosi, si ebbe la cacciata dei frati dalla città con la conseguente fine di questo glorioso convento e la dispersione della sua ricca e scelta biblioteca. Due piatte paraste dividono la facciata in tre scomparti di cui quello centrale a capanna e i laterali spioventi; corona il tutto un cornicione poco aggettante di semplici linee. Degno di nota è soltanto il portalino in pietra, sicuro resto della costruzione più antica; sull’architrave bombato si legge “IOANNES EST NOMEN EIUS” riportato anche dal

Nicolino; il classico disegno con i sobri intarsi delle mensole dell’architrave e l’assoluta affinità con il portale della chiesa SS. Trinità, fondata anch’essa nel 1586 e completata nella facciata nel 1602, comprovano l’anno di nascita di questo monumento. Al rifacimento settecentesco dobbiamo l’aggiunta delle finestre con le cornici in stucco e i leggeri timpani arieggianti quello del portale. Esso è a una sola navata di ragguardevoli dimensioni con volta a botte lunettata; una delicata decorazione in stucco orna le mensole di raccolta della crociera. Sul lato sinistro si aprono quattro cappelle tra loro comunicanti con volte a botte, divise da robusti pilastri e con pavimenti in cotto. L’abside è rettangolare, completamente occupata dall’altare maggiore per un rimpicciolimento operato dall’amministrazione delle “case di riposo” in anni recenti. Un bel pavimento in pietra bianca e grigia della Majella, a disegni geometrici, copre tutta la navata imbiancata poveramente a calce. A destra della porta d’ingresso è murata la lapide funeraria del nobile Saverio Rocca; a sinistra la targa bombata di pietra con cornice a ovoli che ricorda la consacrazione della chiesa:

ANNO DOMINI 1605 DIE 16
MARTII, TEMPLUM HOC CONSECRATUM
FUIT AB ADMODUM ILL.mo ET REV.mo
DOMINO MATTHEO SAMINIATO
ARCH. ET COMITE TEATINO.

La prima cappella è un altare ligneo del 1700 eseguito da frati cappuccini laici detti “Marangoni”, cioè maestri carpentieri. Realizzato in noce, ha un prospetto con specchiatura in radica dello stesso legno e filettatura in bosso. Due colonne lisce con placcatura lignea, che cela la muratura, sorreggono il timpano curvo spezzato con al centro una cimasa. Ai capitelli corrispondono in parete pseduo-proiezioni, caratteristica delle illusioni prospettiche dello stile barocco. La pala d’altare rappresenta la Crocifissione con la Madonna e i Santi Francesco, Rocco, Giovanni Evangelista e Maria Maddalena. In basso, a destra, lo stemma partito Valignani-Anguillara allude al matrimonio tra Girolamo Valignani e Lucrezia Anguillara (misure: cm. 260x170). Il quadro è opera di un pittore eclettico riferibile agli ultimi anni del 1500. La cupa drammaticità dello sfondo con figure opalescenti di guerrieri in lontananza e il forte gioco chiaroscurale ricordano la Crocifissione della chiesa di San Fantin in Venezia e quella del museo vetrario di Murano, già in Santa Maria Formosa, eseguita per la famiglia Querini nel 1590, entrambe del pittore Leonardo Corona da Murano. Sulle pareti, quadri celebrativi dell’ordine cappuccino. La seconda cappella è un altare ligneo simile al precedente, opera degli stessi frati, con leggere variazioni scultoree sul timpano. La pala raffigura la Deposizione con i Santi Tommaso, Giustino, Bonaventura e Francesco (misure: cm. 260x168). Tradizionalmente la figura di santo in vesti prelatizie è stata interpretata come immagine di Pio V; in realtà ciò non è possibile in quanto questo pontefice fu beatificato da Clemente X nel 1672 e canonizzato da Clemente XI soltanto nel 1710. La tecnica pittorica, il rigido panneggio dei personaggi, trattato quasi fosse spesso cuoio, fanno attribuire questa tela alla stessa mano della precedente. Particolare interesse riveste, poi, l'immagine di San Giustino

posta al centro del quadro, l’unica che si conosca del santo patrono dipinta nel 1500. Sulla parete di destra si ammira un Martirio di San Bartolomeo, forse proveniente dalla chiesa dell’Annunziata dei Crociferi. E’ una buona replica del famoso originale perduto di Giuseppe Ribera, di cui esalta i noti accenti realistici. Sulla parete di sinistra e sul pavimento due lapidi marmoree di una certa curiosità ricordano una cugina di Papa Pio IX, nata contessa Mosconi di Iesi e sposata al conte Leognani-Fieramosca di Civitaquana. Sul pilastro tra la seconda e terza cappella è sospesa una piccola pala centinata raffigurante Cristo deposto tra le braccia dell’Eterno Padre e due angeli; in alto putti alati con simboli della Passione. Si tratta di una piccola tela proveniente da altra ubicazione, sempre di questa chiesa, come si comprende dallo stemma dell’ordine francescano dipinto in basso a destra. L’alta qualità pittorica, il caldo cromatismo e il tema trattato la rendono molto pregevole e ne rivelano la sicura ascendenza veronesiana (misure: cm. 154x99). La terza cappella è un altare ligneo del 1700 quasi identico agli altri due, opera sempre dei frati “Marangoni”. La pala d’altare rappresenta Cristo risorto e la Vergine con San Francesco e San Felice da Cantalice. In basso a sinistra si legge:

PINGEBAT BUGNARA MANUS CONSULTOR IN URBE
HIC PATRUM PRAESUL CUM SERAPHINUS ERAT.
1728

La tela si fa ammirare per la morbidezza del colore e l’eleganza delle figure, pervasa da un’aura vicina alla restaurazione classicistica dell’Arcadia, dominante a Roma nel primo ventennio del 1700, capeggiata da Sebastiano Conca. Non se ne conosce la committenza, ma il Serafino di cui si parla è padre Serafino Torelli da Chieti. Sulla parete di sinistra si ammira la grande tela delle stesse dimensioni di quelle dell’altare (cm. 275x170), raffigurante San Francesco alla Verna; su un piccolo cartiglio si legge: “... S faciebat anno 1593”. Il quadro appartiene ad un autore attento all’osservazione naturalistica e calligrafico nel disegno degli animali resi con puntiglio miniaturistico. Anche questa tela è di scuola veneta, vicinissima alle altre presenti nella chiesa. Sulla parete di destra è sospesa una tela con San Camillo de Lellis (misure: cm. 200x130), proveniente dalla chiesa dei Crociferi in cui si trova tutta una serie di quadri narranti momenti salienti della vita del santo degli infermi, opere firmate e datate del pittore napoletano Ludovico de Majo. Nella stessa cappella, in basso, è murato un monumento funebre con commovente iscrizione. Innalzata nel 1844 per il duchino Michele Bassi-Valignani d’Alanno, quest’opera, di squisita fattura, ripropone l’eleganza classica e la levigatezza plastica del Canova. Nella quarta cappella c'è un altare ligneo del 1700 eseguito insieme con gli altri della chiesa dalle stesse maestranze cappuccine sotto la guida di frate Felice da Teramo. Sull’altare San Felice orante (misure cm. 102x101). Quasi certamente l’autore è frate Semplice da Verona, fecondo pittore cappuccino attivo nella seconda metà del secolo XVII. Di mano diversa, invece, i quadri che incorniciano la tela, raffiguranti i miracoli del primo santo dell’ordine. La tela è di buona qualità pittorica e non manca di analisi psicologica, pervasa da cupo verismo sottolineato dal teschio in prospettiva. In questa cappella è depositata anche una Annunciazione datata 1624 con lo stemma della famiglia Celaja (misure: cm. 170x140).


La sagrestia è una stanza di piccole dimensioni dalla volta lunettata, secondo gli schemi dettati dall’architettura tardo-rinascimentale, si trovano due tele settecentesche dalle forti tinte, cupe e drammatiche. Di grande interesse gli armadi lignei dal disegno accurato e dal sicuro intaglio. Sul cassone, ai lati di una grata in ferro battuto e dorato, che cela un bel reliquiario, due ovali: un Salvator Mundi ed una Vergine (misure: cm. 34x28). Delicatissime immagini adolescenziali dalla fresca morbidezza settecentesca che richiama la mano del De Mura. Al centro una piccola immagine di San Michele Arcangelo, consueta riproduzione del famoso quadro che Guido Reni dipinse per la chiesa dei Cappuccini di Roma. Sull’armadio più alto, interessanti teche reliquiarie di fattura più ordinaria.

L'Altare maggiore, a partire dall’8 agosto del 1700 frate Felice da Teramo dava inizio a questa mirabile opera, lasciandone memoria scritta in una scheda incollata sulla seconda tavola del dorso del ciborio. Gli stessi contemporanei manifestarono stupore e meraviglia di fronte a tanta maestria, e il modello di questo altare fu ripetuto in innumerevoli chiese cappuccine della regione. Realizzato tutto in legno di noce, bosso, particolari in ebano e altri legni preziosi, costituisce il capolavoro dei frati “Marangoni”, per la grandiosità delle proporzioni e la finezza di esecuzione, in cui risaltano ornamenti scultorei, colonne, intarsi, notevoli volumi e minuzie curiose, tasselli lignei di scarso pregio intrinseco e placchette di raro avorio. Su un prospetto enorme giganteggiano due colonne scanalate con capitelli corinzi su cui poggia una ricca trabeazione che fa da supporto ai curvi dossali del timpano spezzato. L’alta cimasa, stretta da due eleganti volute, racchiude l’immagine di Dio benedicente. Alla base delle colonne, due piccoli ornatissimi tempietti ripropongono in miniatura il disegno dell’insieme, mentre le porte laterali che immettono nel coro sono sovrastate da due grate lignee dal virtuosistico intreccio. Il ciborio, poi, è un vero gioiello in forma di tempio a più piani, con cupolino a cipolla su cui svetta il Salvatore. Ai lati due agili torricini con cupole sorreggenti angioletti. Il tutto in fasto di colonnine tortili, traforate e piene, intarsi di legni vari e avori, nicchie con statuine in bosso e leggiadri intagli. In tanta sapienza architettonica spicca inoltre un meccanismo celato in portelli dietro l’altare, con il quale si muovono diversi pannelli che vanno a nascondersi in appositi incavi per lasciare all’ammirazione decine di ampolline, flaconi, teche di vetro, in cui sono conservati innumerevoli reliquie e oggetti della più rara devozione.
Certamente è questa una straordinaria macchina scenica in cui l’arte gareggia con la tradizione artigianale e che pone frate Felice da Teramo al di sopra di tutti gli altri “Marangoni”, degno emulo dei sommi intagliatori abruzzesi del XVIII secolo, quali i Mosca, i Bencivenga, i Salvini.



La Pala d’altare è una tela, di vaste proporzioni (misure: cm. 400x275), è anche essa di scuola veneta e rimonta alla fine del ‘500. Vi sono raffigurati la Vergine con il Bambino in grembo incoronati da angeli; in basso vi sono i Santi Giovanni Battista, Francesco, Antonio da Padova, Chiara, Maria Maddalena e Caterina d’Alessandria. Alla base, dietro il ciborio, lo stemma inquartato dei Valignani con i nomi dei committenti:

“VALERIUS ET SILVIA VALIGNANI CONIUGES”

Tutti i santi ritratti hanno una precisa giustificazione: Giovanni Battista è il titolare della chiesa, Francesco e Antonio sono i maggiori santi dell’ordine, mentre Santa Chiara era la titolare del vecchio convento; Santa Maria Maddalena era titolare della chiesetta che per prima aveva ospitato i cappuccini in località Coste Careti e a Santa Caterina era dedicata una cappella all’imbocco dell’attuale via Sette Dolori, dove nel ‘700 fu costruito il convitto dell’Addolorata ancora oggi esistente. Non dimentichiamo, inoltre, che Caterina era il nome della madre di Valerio Valignani il committente della pala. In tutta la composizione è viva la lezione del Veronese, nel colorito un po’ freddo, perlaceo, nella sontuosità dei gioielli e dell’abbigliamento, nella opulenza matronale delle sante, nell’ardito scorcio del ruotante San Giovanni e nell’arguto visetto che si affaccia a sinistra, autentico ritratto; così pure nell’idealizzato paesaggio che divide i due gruppi di figure. L’anno di esecuzione non si allontana dal 1596, quando fu innalzato il primo altare, come ci tramanda la cronaca cappuccina. L’autore è senz’altro il pittore delle prime due cappelle, come chiaramente si rileva da un’attenta analisi stilistica. I pannelli laterali, invece, sono stati dipinti nel 1700 da Pompilio de’ Pizzis da Torricella, a spese dei frati; lavoro piuttosto scadente, soprattutto se posto a confronto con la pala centrale.




Meritevoli di attenzione sono anche le altre opere custodite in questa chiesa e che concorrono a farne un autentico museo. Esse sono il grande Crocifisso cinquecentesco della controfacciata, notevole per armonie di forme e sincera drammaticità; una Immacolata lignea, ingenua, ma nel complesso gradevole per l’eccellente doratura della veste; e infine una Santa Caterina d’Alessandria in legno policromo della fine del 1700, di mano educata e consapevole dei canoni neoclassici. La letteratura relativa alle tele venete di questa chiesa ha sempre fatto riferimento ad autori famosi di quella regione, ricordando il Padovanino, Moretto da Brescia, uno dei tanti allievi del Tintoretto, fino ad arrivare a Palma il giovane. E’ indubbio, comunque, che esse rinviano ad una personalità di un certo valore, sensibile tanto alla lezione del Tintoretto, quanto a quella del Veronese, restando affine alla produzione del Palma, ma nel contempo non ignaro delle novità toscane che andavano penetrando in Venezia alla metà del ‘500. Caratteristiche comuni peraltro ha tutti quegli artisti che il Boschini accoglie nel gruppo delle “Sette Maniere”: Palma, Peranda, Vicentino, Aliense, Malombra, Contarini, Corona. Escludendo i primi sei perché non proprio collimanti con le opere presenti in Chieti, resta l’ultimo, Leonardo Corona da Murano, di cui il Manzato a ben delineato il percorso artistico, individuandone due momenti ben precisi, uno veronesiano e un altro tintorettesco. Le tele dei cappuccini, nella loro quasi totalità presentano un forte veronesismo nel colore e nelle figure curate con minuta attenzione rispetto al modello offerto dal Caliari, ricche di azzurri e rosa, con abbigliamenti sontuosi che privilegiano tessuti di raso e laminati, oltre alla dolcezza dei volti femminili: tutti elementi questi che trovano fedele riscontro in molti dipinti veronesiani realizzati dal Corona tra il 1585 e il 1590 circa. Per esempio la pala maggiore ha forti addentellati con la “Madonna della Cintura” in Santo Stefano di Venezia dipinta nel 1590 per la confraternita dei Cinturati di quella città; oltre a richiamare le scultoree figure create dal Corona in San Giovanni Elemosinario e San Nicolò dei Mendicoli, sempre in Venezia. Un discorso a parte va fatto per la Crocifissione, molto ammirata dagli storici locali e ricordata anche in fonti antiche. Essa è accostabile, invece, ai dipinti dell’ultimo periodo del Corona, quello propriamente tintorettesco, quando maggiore fu l’adesione del pittore ai programmi controriformisti della chiesa veneta, e perciò eseguita con l’occhio rivolto alla Crocifissione Querini di Santa Maria Formosa, oggi al museo vetraio di Murano, e ai teleri di San Fantin e dell’Ateneo Veneto, interrotti per la improvvisa morte del pittore nel 1605, lo stesso anno della consacrazione di questa chiesa. Ricordiamo, inoltre, che questa pala di Chieti fu fatta eseguire da Girolamo Valignani dopo che era stato insignito della croce di San Giacomo, da Filippo II in persona, morto come noto nel 1598. L’attuale facciata è il risultato degli interventi operati nel 1941. In essa notabile appare solo il portalino in pietra, sicuro resto della costruzione più antica. L’interno è composto da una sola navata con volta a botte lunettata e quattro cappelle laterali tra loro comunicanti poste sul lato sinistro. L’abside è di forma rettangolare ed è totalmente occupata dall’altare maggiore. L’Altare Maggiore realizzato in legno di noce con particolari in ebano ed altri legni preziosi, costituisce il capolavoro dei frati “Marangoni”. L’altare è caratterizzato da un’indiscutibile finezza esecutiva nonostante le grandi dimensioni ed in esso risaltano ornamenti scultorei, colonne ed intarsi. La cimasa racchiude l’immagine di Dio benedicente. Alla base delle colonne due piccoli tempietti ornati ripropongono in miniatura il disegno dell’insieme, mentre le porte laterali che immettono nel coro sono sovrastate da due grate lignee caratterizzate da un raffinato intreccio. Inoltre dietro l’altare è nascosto un meccanismo che fa muovere una serie di pannelli che vanno a nascondersi in appositi incavi e che, a seconda dei vari momenti liturgici, mostrano diverse immagini o reliquie. Il ciborio, di fine fattura, è a forma di tempio a più piani, con una piccola cupola su cui svetta Dio Padre. La pala d’altare, di vaste proporzioni è di scuola veneta ed è databile alla fine del cinquecento. Vi é raffigurata un’Incoronazione della Vergine in un trionfo di angeli, la Madonna è ritratta con il Gesù Bambino in grembo ed ha una espressione di grande dolcezza. In basso vi sono i Santi Giovanni Battista, Francesco, Antonio da Padova, Chiara, Maria Maddalena e Caterina d’Alessandria. Alla base, dietro il ciborio, vi è lo stemma della famiglia Valignani con i nomi dei committenti: VALERIO ET SILVIA VALIGNANI CONIUGES. I pannelli laterali dell’altare sono stati eseguiti da Pompilio de’ Pizzis da Torricella. L’altare ligneo della prima cappella, partendo dall’ingresso della Chiesa, è stato eseguito dai Frati “Marangoni” nel 1700. E’ realizzato in legno di noce ed è formato da due colonne lisce che sorreggono il timpano curvo spezzato, con al centro una cimasa. La pala d’altare rappresenta la Crocifissione con la Madonna e i Santi Francesco, Rocco, Giovanni Evangelista e Maria Maddalena. Nella seconda cappella l’altare ligneo è simile al precedente ed è opera degli stessi frati. La pala rappresenta una Deposizione con i Santi Tommaso, Giustino, Bonaventura da Bagnoregio e Francesco. L’altare ligneo presente nella terza cappella risulta quasi identico ai precedenti. La pala d’altare rappresenta Cristo risorto e la Vergine con San Francesco e San Felice da Cantalice. In questa cappella si trova anche il monumento funebre del duchino Michele Bassi-Valignani d’Alanno. L’opera fu innalzata nel 1844 ed appare come un mirabile esempio dell’arte neoclassica di matrice canoviana, cosa rarissima per l’Abruzzo. Il monumento funebre oltre a portare inscritta un commovente epitaffio, raffigura sulla sinistra, un putto che si appoggia alla fiaccola della vita rappresentata però capovolta e spenta, al centro vi è una stele inscritta con sopra l’urna funeraria cinta da una corona di fiori; alla destra è rappresentato un giglio reciso dalla falce della morte.. La quarta Cappella ci presenta un’altare ligneo simile agli altri della Chiesa. La pala d’altare rappresenta San Felice Cantalice orante ed è incorniciata da una serie di riquadri che raffigurano i miracoli del primo Santo dell’ordine.
 

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